Sono numerose le motivazioni e le ragioni che testimoniano in favore della costituzione in Italia di un solido partito di Centro. La principale probabilmente consiste nel recupero di una modalità di interpretazione della battaglia politica non urlata, non assolutista, non vittimista e al contrario moderata nei toni, disponibile e capace di interlocuzione con l’avversario politico quando necessario e utile ai fini dell’interesse generale, competente e puntuale sui contenuti di merito. E al tempo stesso alimentata da alti principi di fondo informati alla democrazia, alla tolleranza, alla solidarietà, alla libertà, sui quali esercitare una sana radicalità.
Un esercizio insomma di moderazione che la gran parte degli italiani in cuor suo chiede oggi alla politica senza trovare risposta. Moderazione che, come ci ripeteva spesso Mino Martinazzoli, è cosa assai diversa dal moderatismo. Un’altra delle necessità di questi tempi, ridare un senso proprio e corretto alle parole, troppo di frequente affastellate senza filo logico e rigore etimologico nel delirante talk show quotidiano di una politica povera di idee e ricca di improperi.
Dunque una ragionata ipotesi circa l’interesse di una larga parte della popolazione ad una contesa politica incentrata sul merito delle cose piuttosto che sullo scontro para-ideologico. Una quota di cittadini che sta progressivamente abbandonando la cabina elettorale proprio perché insoddisfatta e fors’anche delusa dalle modalità urlate della politica bipolare. Qualcuno obietterà che però è proprio con questi sistemi comunicativi che Grillo e poi Salvini e ora Meloni hanno conquistato larghi consensi. Al punto che il Pd ha immaginato ora, con la elezione di Elly Schlein, di adottarli esso pure al fine di riconquistare i punti perduti.
È però alquanto facile obiettare che non solo si è trattato, nei primi due casi, di vittorie effimere, ma che sono state conseguite – inclusa l’ultima, quella dell’attuale Premier – al prezzo di percentuali di astensionismo elettorale crescenti e ormai decisamente preoccupanti dal punto di vista del reale consenso popolare alle istituzioni parlamentari. Un astensionismo che va quindi almeno in parte recuperato alle buone ragioni della politica democratica. Ed è esattamente qui che si gioca la scommessa del Centro.
Sono però numerose anche le ragioni che non depongono in favore dell’esito positivo di questa scommessa e che pertanto esigono da chi evoca l’esistenza di questo spazio politico oggi pressoché sguarnito risposte convincenti e prontamente concretizzabili nella costituzione di una forza politica vera, e non un mero e poco attrattivo rassemblement di sigle, in grado di presentarsi con una buona dose di credibilità alle elezioni europee del prossimo anno. Che offrono un’opportunità unica, essendo proporzionali. Un’opportunità unica per un risultato importante sul piano numerico, tale da indurre nell’elettorato il convincimento che il bipolarismo forzato indotto dalla legge elettorale possa venire superato.
La ragione più evidente delle difficoltà di questa eventuale nuova iniziativa politica è la frammentazione nella quale essa arranca. E già questo è un macigno posto sulla via che dovrebbe condurre ad una credibile – soprattutto credibile agli occhi dell’elettorato, dei cittadini semplici non impegnati direttamente nella contesa politica – costituzione del nuovo partito di Centro.
È clamoroso constatare come a fronte della evidente considerazione, assolutamente incontrovertibile, che solo una sostanziale unità – reale, non meramente esibita – può rendere attrattivo il Centro presso gli elettori vi sia una bulimica proliferazione di sigle, certo tutte orientate nella medesima direzione (almeno in teoria) ma tutte l’una contro l’altra armate. La rottura fra Azione e Italia Viva (o meglio, più precisamente, fra Calenda e Renzi) è solo l’ultimo e più eclatante (e devastante) segnale in tal senso. Che ha provocato un danno, qui è stato già scritto da chi redige questa nota, di immagine e non solo, recuperabile (forse) con grandi fatiche e dispendio d’energie che sarebbe stato meglio dedicare all’azione politica vera e propria invece che alla disfida interna.
Una produttiva e armoniosa convivenza di diverse culture non è certo esercizio di semplice realizzazione, e la storia complicata del Pd è lì a dimostrarlo. La breve vicenda della Margherita, agli inizi del secolo, è forse un possibile esempio, pur con tutti i suoi limiti, che potrebbe essere considerato utile materia di studio fornitrice di qualche buona idea. Lì convissero un’anima cattolico democratica e sociale, una liberal democratica e una ambientalista convergenti nella direzione politica (l’alleanza di centro-sinistra) e sufficientemente amalgamate all’interno, pur con la prevalenza territoriale e dunque organizzativa della componente ex Popolare.
Lì – sia detto come inciso per suggerire uno spunto di riflessione – si intravide anche un interessante prova di ambientalismo serio e non ideologico che avrebbe meritato un’attenzione maggiore, anche all’interno del partito, e che potrebbe venir recuperato con gli opportuni aggiornamenti anche oggi, a fronte degli eventi derivanti dal cambiamento climatico che si registrano con sempre maggiore frequenza.
Fatte queste sommarie ma non certo banali considerazioni, i problemi che da qui originano sono, evidentemente, due. Più un terzo che riguarda direttamente e specificamente noi cattolici democratici e sociali.
Il primo riporta alle alleanze. Anche se non è un tema immediato, e se come detto alle europee ognuno va per conto proprio, è pur vero che al Parlamento di Strasburgo poi le alleanze andranno fatte e questo è un tema che verrà posto già in campagna elettorale. Non solo. Si è già scritto qui per tempo, e ora il tema è di dominio pubblico, del possibile tentativo di Meloni di costruire una coalizione Conservatori-Popolari in grado di cambiare radicalmente la UE. Sul punto un partito di Centro non potrà, evidentemente, rimanere silente.
Del resto, come disse Moro nel grande discorso di Benevento, le alleanze sono importanti “perché il partito anche in esse si definisce” anche se, naturalmente, “il significato di ogni partito – aggiungeva – non risiede in misura preminente nella natura delle alleanze che esso contrae, ma in prima linea nella consapevolezza che esso ha della sua natura”. Il tema dunque si pone, anche se non è l’unico né il principale, e non è possibile evaderlo. Certo va affrontato in maniera attiva e non supina, non ancillare ad una forza prevalente. Ma va affrontato.
Il secondo inerisce alla leadership. Pur in un contesto nel quale il Centro dovrebbe favorire in massima misura non solo la coesistenza fattiva di diverse culture fondative ma pure l’emersione di quante più possibili personalità di spessore ad esse richiamantesi rimane inevitabile (purtroppo, aggiungo) la necessità di avere un leader, un front runner, che le regole imposte dalla odierna società della comunicazione impongono. Questo come qui si è visto è un problema che rischia di divenire insormontabile se dovessero continuare a prevalere personalismi, egocentrismi, solipsismi assolutamente negativi e invisi all’opinione pubblica.
Il terzo e ultimo punto riguarda l’arcipelago cattolico democratico e sociale. Ridotto nella consistenza rispetto a tempi ormai andati ma ancora degno di produrre una vivacità politica e progettuale significativa. Oggi diviso fra chi ritiene ancora possibile esprimere una soggettività all’interno del Pd nonostante la torsione radicaleggiante e la virata a sinistra imposta al medesimo dalle Primarie di questo inizio anno. E chi al contrario considera chiusa e fallita, o comunque superata, quell’esperienza e pertanto ritiene necessario avviare una nuova iniziativa sotto le insegne del Centro. Un Centro, naturalmente, che rappresenti e contenga in sé al meglio anche l’espressione politica e la sensibilità valoriale del cattolicesimo democratico e sociale. Anche qui, naturalmente, non tutto è così chiaro e lineare. Toccherà parlarne in un prossimo contributo.
Fonte : IlDomani